Il diritto e l’orgoglio di essere “zoccole”

"Smettiamo di considerare il termine zoccola negativamente, anzi rivendichiamolo!". Parola di Karley Sciortino, la femminista 2.0 che invita le donne a rivedere i termini per diventare finalmente libere sotto le lenzuola.

Sex & the city è stata forse la prima serie che abbia affrontato davvero la questione della sessualità femminile senza falsa retorica né preoccupandosi di pregiudizi e stereotipi circolanti sull’argomento.

Anzi, ne ha parlato in maniera sempre libera e volutamente provocatoria, per chiarire, una volta per tutte, il diritto alla libertà sessuale delle donne, ad avere una vita piena e consapevole nella sfera intima, a considerare il sesso solo per quel che è, ovvero mero contatto fisico, senza per forza la necessità di un coinvolgimento emotivo.

Ecco, se dovessimo pensare alla figura di Carrie Bradshaw, scrittrice con una colonna sul New York Times che parla proprio di sesso, spesso anche in prima persona, e trasportarla nella realtà, ci verrebbe sicuramente in mente Karley Sciortino: blogger, editorialista di Vogue, ma soprattutto donna che non si è mai vergognata di parlare di sesso.

Anzi, la Sciortino, nella sua esperienza, ha fatto molto di più: ha cercato di decostruire e rovesciare il concetto di “zoccola” e, più in generale, dello slut-shaming, liberandolo  dalle accezioni negative per offrirne una prospettiva diversa, e in una chiave femminista.

Karley ha persino chiamato il suo blog Slutever, utilizzando quella radice, slut, che significa appunto “sgualdrina”, “zoccola”.

Perché, dice, le donne non dovrebbero rifiutare questo appellativo, ma semmai appropriarsene e rivendicarlo, per fare in modo, come accade ogni volta che una comunità si impadronisce di un aggettivo che nell’uso quotidiano è usato in modo dispregiativo nei suoi confronti, di demonizzarlo e levargli di dosso lo stigma sociale che lo permea.

Ha spiegato il suo punto di vista in un libro, Generazione slut. Suggerimenti e trucchi per una sessualità ribelle, pubblicato nel giugno del 2019, in cui si è confrontata con psicologi, registi, docenti di gender studies e antropologi proprio allo scopo di liberare il termine “zoccola” dalla sua matrice negativa.

Partiamo da una realtà: indicando una donna come zoccola (che peraltro, da dizionario, è la femmina del classico topo di fogna) si tende il più delle volte a sottolineare una certa emancipazione sessuale, il fatto che abbia avuto diversi partner o che non disdegni le avventure mordi e fuggi… Insomma, in sostanza è una donna con un’attitudine sessuale che, storicamente, nel caso di un uomo è accettabile, nel suo chiaramente no.

Per questo, un consistente gruppo femminista da anni sostiene la necessità di debellare il termine, soprattutto se a usarlo sono donne nei confronti di altre donne, per non perpetuare proprio quella cultura dello slut-shaming cui accennavamo prima. Insomma, se noi siamo le prime a darci delle zoccole a vicenda, come possiamo sperare che gli uomini smettano di farlo?

Karley, però, è contraria a questa visione, e anzi propone una soluzione diametralmente opposta, più sulla scia del “se non puoi sconfiggerlo, fattelo amico”.  Appropriarsi con dignità del termine zoccola come mezzo per liberarlo da ogni connotazione negativa, un po’ come le persone di colore hanno cominciato a chiamarsi “negri” fra loro, in epoche meno recenti, per esorcizzarne la negatività.

Si legge in un estratto del libro di Karley:

Storicamente, molti termini peggiorativi sono stati rivendicati dalle stesse comunità che hanno subìto l’oppressione di quelle etichette. Perché dovrebbe essere diverso per la parola ‘zoccola’? È ingenuo pensare che si possa semplicemente abolire una parola dal lessico della società perché è meschina (e poi per quale motivo qualcuno dovrebbe volersi sbarazzare di una parola così meravigliosamente perversa?). Al contrario, dovremmo appropriarci dell’etichetta di zoccola e sovvertirne la connotazione negativa. Rivendicare una parola significa toglierle la capacità di nuocere e conferirle il potere di provocare e generare solidarietà.

È, il suo, un punto di vista sicuramente particolare, che però la Sciortino argomenta in maniera molto razionale, citando, ad esempio, scrittrici come Ariel Levy, autrice di Sporche femmine scioviniste. Le donne e l’irresistibile ascesa della Raunch Culture, in cui si sostiene che l’oggettificazione femminile passi proprio attraverso i tentativi delle donne di liberare se stesse dalla cultura ipersessualizzata esponendole a un esibizionismo inutile e fine a se stesso. Karley cita la Levy per dire che sì, il suo può essere un punto di vista ragionevole, ma

perché non posso ottenere un dottorato e allo stesso tempo masturbarmi di fronte alla webcam durante i weekend per denaro? Perché zoccole e non-zoccole non possono convivere in armonia? Perché è così inconcepibile che lo humor e l’irriverenza siano delle forme valide di resistenza? Se non altro, è meglio che offendersi per qualsiasi cosa.

Ma c’è un altro punto interessante nella riflessione di Karley, ed è il non smettere di considerare quella sfumatura negativa che è contenuta nel termine zoccola. Questo perché farlo significherebbe continuare a portare avanti l’idea che la sessualità delle donne sia solo e unicamente “virtuosa”, che non possa ambire alla trasgressione, che resti, insomma, vincolata a certi tabù sociali.

C’è qualcosa di negativo nell’essere una zoccola – qualcosa di malizioso, controverso e imprevedibile – e non penso che dovremmo perdere questa connotazione. Agli uomini non viene chiesto di fare i bravi, perché dovrebbero esserlo le donne? L’idea che la sessualità femminile sia totalmente virtuosa, o che a noi riesca meglio degli uomini controllare la nostra sessualità, è un grande inganno sociale (che, talvolta, viene perpetuato dal femminismo). Invertire completamente il significato di ‘zoccola’ in qualcosa che sia unicamente positivo o in grado di emancipare vuol dire negare il lato oscuro insito nella zoccolaggine, che è quello che contribuisce a renderla così sexy.

Cosa che peraltro aveva già detto nel corso di un’intervista per il Guardian, in cui ha parlato del suo blog e del motivo per cui lo ha chiamato Slutever:

Voglio solo far emergere il messaggio che il piacere non rende le donne schiave degli uomini, ma al contrario le libera. Permette loro di rivendicare ciò che sono, anche sotto le lenzuola. Siamo in un momento in cui possiamo parlare del sesso più che mai e il doppio standard sta iniziando a svanire, e tuttavia stiamo diventando sempre più moralisti su alcuni aspetti della sessualità.

Nella stessa occasione, ricordando anche l’educazione fortemente cattolica ricevuta, Karley ha aggiunto:

Ci sono due modi in cui può arrivare l’educazione. Uno è seguire il modello di repressione e provare molta vergogna per la sessualità. Oppure si usa quella vergogna come strumento per diventare solo una specie di ‘maniaco’. È chiaro quale strada io abbia scelto.

Lo scopo, in sostanza, è ridimensionare il concetto di “zoccola”, smettendo di considerarlo offensivo, e di lasciare solo quel significato che implica completa indipendenza ed emancipazione sessuale.

Chiaramente vogliamo dirigerci verso una società in cui le donne non subiscano lo stigma della puttana e possano esprimersi senza timore. Ma credo sia possibile coltivare una società in grado di consentire una sana esplorazione sessuale pur mantenendo gli elementi di tabù e trasgressione della vita da zoccola. Il mio obiettivo non è essere buona, normale o accettata. Il mio intento è essere libera.

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