In materia di sessualità, gli argomenti delicati sono ancora moltissimi. Le discussioni che ruotano attorno alla verginità, però, sono un vero e proprio terreno minato. Di verginità si parla poco, e male. A rimetterci sono ragazze e ragazzi, che si ritrovano di fronte un orizzonte infarcito di luoghi comuni, stretti tra tabù che sembrano inscalfibili e pressione sociale.

Del resto, mai come parlando di verginità è vero il detto “come fai (o, all’opposto, non fai), sbagli”. Questo vale soprattutto per le ragazze. Lo fai troppo presto? Sei una tr*ia che non ha rispetto per se stessa. Non hai ancora fatto sesso? Sei una sfigata, devi darti una mossa. Da un lato ci dicono di aspettare la persona giusta, “principe azzurro”, dall’altro che se la persona giusta non passa entro un certo limite di tempo a non essere giuste siamo noi.

Per i ragazzi le pressioni sono diverse, ma non meno martellanti: le aspettative infarcite di mascolinità tossica spingono perché il “peso” della verginità sia qualcosa da lasciarsi indietro il prima possibile, riempiendo il vuoto lasciato con conquista dopo conquista.

Quando si riflette sul concetto di verginità lo si fa soprattutto in relazione alla sua idealizzazione – e conseguente feticizzazione – di cui un’immagine quanto mai evocativa è quella dei Purity Ball statunitensi, in cui si celebrano matrimoni simbolici tra padri e figlie, con le seconde che promettono di mantenere intatta la propria purezza e i primi che si auto-insigniscono del titolo di “protettori” della filiale virtù.

Senza voler cercare manifestazioni così estreme, però, per capire quanto l’illibatezza sia un feticcio basta pensare alle infinite discussioni sui tabloid in cui si dibatte in mono più o meno pruriginoso su quella delle star adolescenti, alle lenzuola che sventolavano a riprova della purezza della sposa solo pochi anni fa anche nel nostro Paese (e ancora sventolano in qualche realtà) o, più semplicemente, a quanto l’idea di una donna vergine (purché giovane) sia appetibile per l’uomo, che sogna di essere il primo a deflorarne l’intoccata purezza.

La – sacrosanta – lotta a questa feticizzazione della verginità, però, rischia di nascondere l’altro (pericolosissimo) lato della medaglia: l’idea che si debba far sesso per forza entro una certa età (il numero è variabile, ma sempre al di sotto dei 20 anni, meglio se dei 18) per non subire la vergogna e lo stigma di essere dei tardoni sfigati. Del resto, non sei riuscito a fare sesso in vent’anni, ci deve essere qualcosa che non va in te, no?

Secondo i dati di The Face of Global Sex, un’indagine condotta da Durex, in Italia l’età media della “prima volta” è 19,4 anni. Nel 2005, quando lo studio e stato condotto per la prima volta, erano 18. Secondo una ricerca del progetto The Next Steps dell’University College di Londra, inoltre, nel 2018 un 26enne su otto era ancora vergine. Anche questo è un dato in crescita. Notevolmente in crescita, anzi: secondo il Times, nella generazione precedente si parlava di 1 su 20.

Una precisazione è però necessaria: i dati non ci raccontano tutta la storia. Le cifre, infatti, non sono che una risposta alla domanda “quando hai fatto sesso la prima volta?”, che rimanda a una definizione della verginità come, appunto, “prima volta”. Ma prima volta di cosa? Quando si pensa alla perdita della verginità lo si fa riferendosi alla penetrazione completa, a un’idea di sesso filtrata dalla visione patriarcale eteronormata che esclude dalla definizione di “vero sesso” tutto quello che non prevede l’ingresso di un pene in una vagina. Anche il sesso anale è considerato alla stregua dei preliminari come una strategia per avventurarsi nel mondo della sessualità mantenendo intatta non tanto l’illibatezza quanto, sia fisicamente che simbolicamente, l’imene, come dimostra questa domanda rivolta a un medico online dal titolo significativo “Sesso anale da vergine“:

Buongiorno dottore.

Ho 20 anni e sono vergine. Per me non è stata una scelta di carattere etico o religioso. Semplicemente non ho ancora trovato l’occasione e la persona giusta per farlo. Qualche mese fa ho avuto una storia occasionale con un uomo più grande, 44 anni, non era previsto un rapporto sessuale però poi abbiamo fatto sesso anale. Non gli avevo proibito il sesso vaginale ma lui mi ha detto che non voleva togliermi la verginità. 

Nondimeno, gli studi due cose ce le dicono: le nuove generazioni fanno meno sesso – tra il 1991 e il 2017, il numero di studenti delle scuole superiori che fanno sesso negli Stati Uniti è sceso dal 54% al 40% e i Gen Z australiani sono sessualmente attivi quanto i pensionati – e lo fanno più tardi.

Riflettere su come questo entri in relazione con un immaginario che vede la verginità o come un valore da preservare a ogni costo (solo quando si parla di ragazze, ovviamente) o come una vergogna da cui è necessario liberarsi il prima possibile è necessario.

Soprattutto, però, è fondamentale rifiutare entrambe queste visioni.

Non solo per donne e ragazze, che rimangono schiacciate fin dall’adolescenza in una concezione che le vuole sante o putt*ne (o, possibilmente, tutte e due in un’unica persona) e la cui verginità, superata una certa età, può trasformarsi non solo in un ostacolo a vivere la propria sessualità – al punto che ci sono dei gigolò che lavorano quasi esclusivamente con ragazze vergini – ma anche in un rischio di violazione del consenso da parte del partner e in varie forme di violenza sessuale, come lo stealthing.

Non solo per le persone autistiche o con disabilità, che ancora troppo spesso fatichiamo a includere nelle discussioni in materia di sessualità, o per le persone nonbinary e quelle che hanno un orientamento sessuale non etero, che rimangono escluse dall’attuale visione esclusivamente penetrativa della verginità.

Ripensare dalle fondamenta il modo in cui consideriamo la verginità è fondamentale anche per gli uomini abili eterocis, che schiacciati da una pressione sociale (vera o percepita) rischiano di sviluppare sentimenti di frustrazione e rabbia rivolti non verso la cultura patriarcale che li vuole VeriMaschiTM o nulla, ma verso le donne.

Gli uomini che vivono il sesso come un loro diritto ma non riescono a ottenerlo e si sentono indesiderabili, infatti, incolpano le donne che gli preferiscono il modello di uomo che proprio la società patriarcale ha indicato come massimamente desiderabile. In questo cortocircuito, gli incel (involuntary celibates) entrano in una spirale di depressione e odio che, se in molti casi rimane confinato al mondo della rete, sfocia anche in vere e proprie esplosioni di violenza che hanno come vittime, ancora una volta, donne che non avevano nessun’altra colpa se non il loro genere.

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