La prima volta che mia madre mi beccò, non sapevo neppure che mi stessi masturbando.

“Cosa stai facendo?” – mi domandò con aria di grande riprovazione, senza aspettarsi una risposta. Poi mi ordinò -: Siediti bene. Sul divano si sta seduti composti o ti spengo i cartoni”. Era nervosa, borbottò altre cose cercando di fingere indifferenza, andò in cucina e al ritorno mi disse:

Non si fa. Non voglio più vederti fare questa cosa. Hai capito?

Dissi sì, anche se non avevo capito niente.
Neppure quello che stavo facendo, a dire la verità. Semplicemente a me quella cosa piaceva. Avevo scoperto che se fregavo contro una superficie la mia “rosellina” – nome che a casa dei miei indicava la vagina mia e di mia sorella e oggi indica quella di mia nipote – ne ricavavo un piacere nuovo e profondo, a tratti doloroso, non comparabile a nessun altro tipo di godimento.

Così continuai. Tutti i pomeriggi mangiavo pane e Nutella, accendevo i cartoni e mi mettevo a cavalcioni del bracciolo di legno del nostro divano anni Sessanta e sfregavo la “rosellina”. Scoprii presto che funzionava anche sull’angolo della sedia, su quello della vasca e su una serie di altri “supporti”, ai quali io mi strusciavo di nascosto dai miei.

Se mia madre arrivava all’improvviso mi lasciavo cadere sul divano, con una senso intimo di frustrazione per l’attività lasciata a metà, misto a vergogna per il misero tentativo di far sembrare che stessi facendo altro. Un giorno che non fui abbastanza veloce, mia madre inscenò il suo più riuscito ricatto morale: “Quando fai questa cosa, fai piangere Gesù!”.

Me lo disse con aria accorata, aggiunse cose sul fatto che le avevo promesso che non l’avrei più fatto, che pensava di potersi fidare; mi chiese perché continuassi a farlo, ma non per ascoltare il mio timido “perché sento una cosa che mi piace”, quanto per rincarare: “Allora preferisci far piangere Gesù?”.

No, che non lo volevo farlo piangere! Erano 6-7 anni che tutte le mattine e tutte le sere gli dedicavo un pensierino, una preghiera e un bacino via icona appesa sopra al mio letto di “bambina peccatrice”. Anche se non l’avevo mai visto, giuro che gli volevo davvero bene a quella specie di fratellino lontano, un po’ mago e un po’ supereroe.

Fatto sta che, negli anni a seguire, lo feci piangere spesso e tutte le volte mi sentivo terribilmente in colpa. Finii anche con il confessarlo al prete durante la prima confessione: anche lui fu preso da sconforto imbarazzato come mia mamma e mi beccai non so quante Ave Maria di penitenza e il diktat di non farlo più. E lo feci ancora.

Nessuno degli adulti che avevo intorno mi spiegò che cos’era ciò che stavo facendo, perché era così intenso e desiderabile. Soprattutto nessuno si premurò di spiegarmi perché l’impulso a farlo diventava irrefrenabile quando Lady Oscar e André finalmente si baciavano o Georgie se ne stava nuda a letto con suo fratello.

Neppure la maestra lo fece quando presi il vizio di cercare di procurarmi quel piacere anche a scuola, soprattutto durante le infinite e noiose ore di matematica in seconda elementare.

Lo imparai velocemente da sola, in ogni caso, ma anche adolescente prima e giovane donna poi, mi portavo addosso quel senso di peccato, di cosa sporca e proibita.

Quando mi comprai per la prima volta un vibratore – già studentessa universitaria in un’altra città – pensavo di essermi ormai emancipata dal puritanesimo della mia educazione ma, prova del fatto che c’ero dentro fino al collo, massimo un mese dopo lo buttai perché l’ansia che qualcuno potesse scoprire quel fallo realistico in silicone che tenevo in fondo al cassetto della scrivania, superava di gran lunga il piacere che mi dava usarlo.

Ed effettivamente di piacere non me ne diede. Vuoi perché, sull’onda della ribellione, mi presi un pene da maschio caucasico superdotato, con colore e venature inquietantemente iper-realistici, e decisamente al di fuori dalla portata dei partner sessuali avuti fino ad allora.
Vuoi perché, quelle poche volte che provai a usarlo sentivo il carico di sensi di colpa che non pesavano di meno sapendoli stupidi e il timore di quello che sarebbe successo se, per caso, quel coso si fosse incastrato dentro la mia vagina.

Per ipocondria buttai anche il mio secondo sex toy, qualche anno più tardi. Fu la volta in cui optai per un dildo di dimensioni congrue e dall’aspetto design, che mi regalò qualche soddisfazione in più, ma che finì nella spazzatura insieme a una fotografia quando, a causa di un brutto momento di salute valutai l’eventualità di poter morire da un momento all’altro. In quell’occasione, a farmi più paura della morte, fu l’idea che i miei genitori scoprissero nel fare ordine tra i miei beni il mio gioco erotico e quello scatto che ritraeva un bacio saffico tra me e la mia migliore amica, ubriache e disinibite.

Oggi, per la cronaca, ho anche capito che ai falli artificiali, personalmente, preferisco altri sex toys: nella fattispecie, palline cinesi e mini dildo anali, se si parla di giochi di coppia, e tutto ciò che agisce, come il bracciolo del mio divano da bambina, sul mio clitoride, per i momenti in solitaria. E di sicuro non butterei via il mio succhia clitoride a forma di pinguino, neppure sotto minaccia di giudizio universale. Non foss’altro che mi ha regalato orgasmi migliori lui che è in silicone di molti uomini in carne e ossa.

Sia chiaro anche che il trauma infantile, se di questo si può parlare, non mi ha impedito di avere una vita sessuale più che mai attiva e fin troppo promiscua. Ho avuto senz’altro più uomini di quanti possa ricordarmi stilandone un elenco frettoloso.

A volte ho addirittura pensato che questa mia tendenza a sedurre, sessualizzando la maggior parte delle mie conoscenze maschili, sia stata una reazione a quei “non sta bene”, applicati alla masturbazione e, più in generale, al sesso da chi si è occupato della mia educazione.

Oggi vorrei dire a mia madre – che ovviamente di sesso con me non parlerebbe mai e taglierebbe ancora corto – che sarebbe stato bello sapere da lei che mi stavo semplicemente masturbando ed era normale.

Sarebbe stato bello se, pur con l’imbarazzo di chi impara a fare la madre di una bambina che cresce, mi avesse sorriso e spiegato che non ero “cattiva” perché, a un certo punto, la mia “rosellina” non serviva più solo per fare pipì, ma si animava di fremiti strani.
Avrei voluto sapere che non era una cosa che capitava solo a me, che facevo piangere Gesù e la Madonna e tutte le schiere di angeli e santi, che stavano lì a puntare il dito su di me.

Ma ora so anche che lei non poteva dirmi nulla di tutto ciò, perché mia nonna, la mia bisnonna e le donne della nostra famiglia prima di loro, avevano imparato e insegnato a loro volta che il piacere che arriva da lì è peccato o che il piacere in generale lo è, soprattutto per una donna.

Forse dovrei dirle io:

“Mamma, la sai una cosa? Il piacere che la me piccola provava da bambina era una cosa bella: era profondo, forte e mi guidava alla scoperta del mio corpo, ricettivo e potente.
Non c’era nulla di male nel masturbarsi allora e non c’è nulla di male nel farlo oggi. E posto il fatto che ci sia qualcuno lì a controllare quante volte e quando lo facciamo, non piangerebbe di certo nel vedere che io mi masturbo o se lo fai tu.

Mamma, il piacere è una cosa bella. La mia “rosellina” che stava sbocciando lo era. Dovresti farlo anche tu, mamma, se non lo hai mai fatto o ti sei obbligata a non farlo più.
Perché è normale masturbarsi. Ora lo so e forse lo sai anche tu. Magari hai sentito qualche sessuologo e ginecologo dirlo in un talk show o l’hai letto sulla rivista nella sala d’aspetto del dottore: è normale e non c’è nulla di cui vergognarsi nel farlo.

Perché è naturale, come mangiare, bere, fare sesso o pipì. Non è nulla di sporco o di sbagliato.
Non è naturale non farlo pensando sia una di queste cose”.

E a quel punto potrei regalare anche a lei un succhia clitoride e vedere che faccia fa quando le spiego a cosa serve.

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