Molti di noi, se pensano al Giappone, pensano subito e quasi istintivamente a geishe e samurai; in realtà, la cultura nel Paese del Sol Levante, oltre che essere molto ricca perché con una lunga storia alle spalle, è anche estremamente complessa e stratificata, e non disdegna affatto la componente erotica e sessuale, anzi.

Dal massaggio Nuru al body sushi, molto, in Giappone, parla di sesso ed erotismo; fra le pratiche più diffuse nel Paese c’è anche quella del Burusera.

Cosa significa Burusera?

Il termine Burusera è creato unendo il termine burumā, ovvero i pantaloncini delle tute da ginnastica, con sērā-fuku, che è la marinaretta, la tradizionale divisa scolastica femminile.

Con questa parola, però, nel tempo, si è andata a delineare la “moda”, in voga proprio tra le studentesse, di vendere la propria biancheria intima usata o le divise scolastiche in quelli che sono diventati i Burusera shop: veri e propri negozi fisici in cui si possono trovare altre merci appartenute alle giovani studentesse, dai costumi da bagno indossati per le lezioni di educazione fisica fino ai calzini, passando per articoli di cancelleria e addirittura assorbenti (nei casi più estremi si trovano addirittura saliva, urina e feci).

Le merci in esposizione sono spesso accompagnate dalle foto, presumibilmente, della ragazza che le ha vendute; di pari passo con il Burusera c’è poi il Namasera (Nama significa fresco, nel senso di “appena preparato”), in cui le ragazze si sfilano direttamente gli slip per consegnarle “in diretta” all’acquirente all’interno dello shop. Il prezzo di un paio di slip appena sfilati varia dai 5000 ai 10000 yen, ovvero fra i 39 e i 79 euro secondo il cambio aggiornato.

È chiaro che parliamo di un livello di feticismo estremo, in cui l’eccitazione proviene dal sentire gli odori emanati dai capi intimi di sconosciute, il più delle volte giovanissime; come detto, anche il Burusera rientra in quella nutrita cultura erotica giapponese di cui parlavamo all’inizio, anche se, naturalmente, è sottoposto a regolamentazioni e leggi ferree.

Il Burusera e la cultura erotica giapponese

C’è un forte interesse verso l’erotismo da parte dei giapponesi, anche se ci sono limitazioni in alcuni settori, come quello della prostituzione, ad esempio, vietata da una legge del 1956 (nonostante le numerose scappatoie di cui parleremo fra poco) e ovviamente della pedofilia, anche se la legge in merito, di fatto, è arrivata ufficialmente solo nel 2014 e ha mantenuto salva la possibilità di diffondere e usare immagini non reali di minori, come quelle dei manga.

Dicevamo della prostituzione: il diritto giapponese la definisce come “il rapporto sessuale con una persona non specificata in cambio di un pagamento”, ed è per questo che nel Paese spopolano i fūzoku, locali in cui vengono offerti servizi che non comprendono il coito (ci sono però, su tutti, i sondaggi di MiW e National Women’s Education Center of Japan che hanno rivelato che tra il 20 e il 40% degli uomini giapponesi abbia pagato per prestazioni sessuali).

I fūzoku sono apparentemente sale massaggi, ma al loro interno si trovano una lista delle ragazze disponibili per conversazione, danza e attività legate all’igiene personale, e un’altra con la descrizione completa in termini di prestazioni sessuali e gusti di uomini.

Della cultura erotica giapponese fanno poi parte le cosiddette Deli Girls, ragazze che possono essere contattate su siti appositi, scelte in base alle caratteristiche del profilo e chiamate affinché arrivino a domicilio; anche in questo caso parliamo di una prassi sulla carta illegale, ma di fatto tollerata, che ancora una volta rispecchia la grande contraddizione di un popolo estremamente rispettoso delle regole, rigoroso, ma allo stesso tempo affascinato dalle tematiche sessuali.

Infine, abbiamo l’hentai, che al di fuori dei confini nipponici è conosciuto come sinonimo di categoria pornografica – le rappresentazioni in chiave sessuale dei manga – , ma in realtà ha significati diversi nella lingua originale. Con il termine, infatti, generalmente si comprendevano tutti i comportamenti devianti in ambito sessuale; insomma, la parola designa una generica perversione, che si esplica in modi diversi in base alle singole preferenze.

Del resto, fin dai tempi antichi il culto dell’erotismo ha avuto un ruolo estremamente rilevante nella società nipponica: già dal XVIII secolo, ad esempio, l’hentai rappresentava una fiorente forma d’arte, e in generale questa visione dell’erotismo si è sempre equamente divisa tra pudico e sadico, accostando immagini innocenti (quelle, appunto, di scolarette in divisa da marinaretta, ad esempio) in una chiave di lettura decisamente eccitante.

In questa cultura così spiccatamente improntata alla curiosità verso il sesso, c’è invece un errore piuttosto comune compiuto da quasi tutti gli occidentali che riguarda la figura della geisha, molto spesso accostata a una prostituta; in realtà, questo iconico personaggio che racchiude, da solo, l’intera cultura giapponese è una figura femminile fortissima che le donne giapponesi stesse lottano per mantenere in vita, dotata di una sua storia che nulla ha a che fare con la prostituzione.

Le leggi sul Burusera

Un tempo esistevano addirittura distributori automatici dove le ragazze potevano lasciare i propri indumenti intimi, fino a quando, nel 1994, il Giappone ha vietato la vendita di biancheria intima da scolaretta usata, spiegando che violava il Child Welfare Act, il primo atto sulla pedopornografia; nello stesso anno, a riprova del pugno duro voluto dal governo, il titolare di un Burusera shop che aveva permesso a una studentessa di vendere la sua biancheria usata venne arrestato dalla Polizia Metropolitana di Tokyo proprio per violazione dell’articolo 34 della legge sopracitata, oltre che dell’articolo 175 del Codice penale giapponese; la polizia ipotizzò anche la violazione del Secondhand Articles Dealer Act, il quale proibisce l’acquisto di merce di seconda mano senza essere in possesso della licenza specifica.

Le leggi sulla pedopornografia imposero un controllo serrato sulle attività dei Burusera, considerate una forma di abuso sessuale sui minori, nonostante le stesse studentesse dichiararono parere contrario, spiegando che, per loro, era un modo per guadagnare facilmente denaro extra.

A ciò si aggiunse l’imposizione, nel 2004, da parte delle Prefetture giapponesi, di normative per limitare l’acquisto e la vendita di biancheria usata, saliva, urina e feci di persone minori di 18 anni; questo ha portato però a un altro estremo, dato che si registrarono moltissimi casi di minorenni che permettevano ai loro kagaseya (letteralmente annusatori) di annusare le mutandine che stavano indossando.

Le varie leggi emanate, che sono state mirate soprattutto a prevenire la pedofilia, non hanno comunque impedito ai negozi Burusera di continuare con gli affari, solo che adesso gli shop sono diventati più “sotterranei”, e al loro interno i distributori automatici si trovano ancora.

Decisamente fiorente è invece il mercato online, in cui la vendita di slip usati ha sorprendentemente trovato nuova linfa, grazie a piattaforme come PantyTrust, ad esempio, online addirittura dai primi 2000, SellYourPanties, PantyDeal e SofiaGray.

Attraverso siti del genere le donne che decidono di vendere online la propria biancheria usata sono senz’altro maggiormente tutelate, evitando di andare incontro a richieste inopportune, dick pic e altri fenomeni di questo genere; lo stesso PantyTrust, ad esempio, è nato da un forum di feticisti che, stufi di truffatori e venditori disonesti, hanno costruito un sito web basato solo su una lista di venditori affidabili.

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