Se fu colpa di Lady Oscar, di Candy o di Georgie non ricordo.
Di sicuro stavo guardando un cartone e, visti i ricordi legati a ognuno di loro, sono portata a credere che fosse uno di questi.

Non credo neppure fosse la prima volta. Di sicuro fu la prima in cui scoprii che il poggiolo di legno del divano anni ’50, che finora era stato il prode destriero di tante avventure, fosse “cavalcabile”, con immenso piacere, anche da un altro punto di vista.

Lo scoprii presto anche mia madre, che notò come le mie galoppate coraggiose con Lady Oscar fossero diventate meno rumorose e più intense. Non brandivo più la spada di plastica del mio costume di carnevale, ma stavo attaccata quasi con sofferenza al pomolo con cui finiva il poggiolo, fregando quella che mia madre chiamava candidamente la mia “rosellina”.

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E candida lo ero anche io, che avrò avuto sì e no 8 anni e che non capii l’orrore che vidi nello sguardo di mia madre, quando entrò in salotto e mi trovò così, davanti a Bim Bum Bam, con il volto arrossato e la seconda metà del mio rituale panino e Nutella ancora da finire.
Ed ero talmente candida che, ovviamente, non mi ero minimamente preoccupata di dissimulare o interrompere la mia nuova attività che, da quel giorno in poi, mi accompagnò per molti anni. Ma, dopo quell’episodio, con molta più scaltrezza, mista a enormi sensi di colpa, da parte mia.

L’orrore, dicevamo, era l’emozione più certa che vidi sul suo volto. Ma posso scommettere con relativa sicurezza, nonostante i decenni passati da allora, che ci fossero anche una buona dose di vergogna, rabbia, voglia di piangere, scandalo. L’eterea bambina biondissima, vivace sì ma docile e generosa che ero, si era trasformata in una sorta di demone della lussuria, peccato, si sa, mortale.

E, infatti, dopo essersi sbrigata a sollevarmi di peso dal mio voluttuoso destriero e avermi portata di corsa, prima sul water, per fare pipì, e poi sul bidet, per una rinfrescata ai più che giovanili ardori, mi chiese cosa stavo facendo, senza aspettare risposta, e mi disse che avevo fatto piangere Gesù.

E se mi viene da ridere, pensandoci oggi, non fu così allora, visto che avevo in grande considerazione quel bambinello di ceramica sul mio comodino, davanti al quale tutte le sere mi inginocchiavo a pregare, alzandomi solo dopo avergli dato un bacino.

Da quella sera e per tutte quelle a venire, il suo sguardo non fu più uguale.
Sarebbe sembrato lo stesso, a un osservatore distratto, ma io lo conoscevo bene. E mi sentivo tanto in colpa e dispiaciuta. Continuai, tutte le sere, a inginocchiarmi davanti a lui come sempre, ma non riuscivo più a guardarlo in faccia.

“Sì, lo so che ti avevo promesso che non lo facevo più. Ma giuro che quella di oggi è stata l’ultima volta”.

Gli dicevo ogni volta e ogni volta mentivo, sperando di avere la forza di resistere, via via che crescevo, agli occhi di Terence, a Marco Bellavia (Mirko nel film di “Kiss me Licia”), a Brad Pitt con i capelli lunghi sulla copertina di Cioè, a Dylan McKay.

Prima che arrivassero Tiziano, Adriano, il Billy e vari altri ragazzi reali, in carne e ossa, ad abitare le mie fantasie di “signorina” – perché nel frattempo era sopravvenuto anche lo sviluppo inteso come comparsa delle mestruazioni -, mia madre chiaramente mi sorprese altre volte.

A quel punto l’orrore non era più l’emozione dominante, surclassata via via dalla vergogna e dalla rabbia.
Gesù pianse a lungo, poi subentrarono, in ordine sparso, gli assiomi, come tali senza spiegazione, “è una cosa brutta, bruttissima”; il senso di colpa indotto, “sono molto, molto delusa da te”; la minaccia apocalittica, “sai che per queste cose si va all’inferno?”; e il ricatto, “questa settimana niente paghetta”.

Nulla di tutto ciò servì ad arginare il fenomeno, chiaramente fuori dal mio controllo.
E, quando i miei cambiarono il divano (voglio sperare non per questo motivo), io scoprii presto che angoli di tavoli, sedie e altri arredi potevano sopperire, anche se non con altrettanta maestria.

Quella che cambiò fu, negli anni, la consapevolezza di quello che stavo facendo, visto che all’inizio non ne avevo la più pallida idea e, solo con il tempo, imparai per sentito dire (e tramite posta di Cioè), cos’era e come si chiamava quella cosa che tanto mi piaceva fare – masturbarmi – e perché era considerata tanto riprovevole.

Non imparai, purtroppo, per molti anni, che tanto riprovevole non era. Mi portai – e a volte ancora mi porto addosso – quel senso di sporco e di peccato, di qualcosa che non si fa, non sta bene, non è necessario. Così, la prima volta che comprai un vibratore, non servì il fatto di non avere più quel bambinello di ceramica a guardarmi con occhi delusi, e poche settimane dopo buttai via il sex toy tanto agognato perché mi era impossibile usarlo senza sentirmi profondamente sbagliata.

E anche ora che ho fatto pace con i sex toys, ancora capita di sentirmi “strana”, quando il climax scema e mi trovo a chiedermi se è normale.

Non mi basta sapere, oggi, donna adulta, che la masturbazione è un atto naturale, per nulla osceno: un mezzo per conoscere se stessi, il proprio corpo, imparare ad amarsi e insegnare ad altri ad amarci come ci piace. Senza vergogna, senza sensi di colpa, con gioia.

E intanto mio figlio, con un vantaggio di 6 anni sulla piccola me di allora, si punta il getto della doccia sul suo minuscolo pene e mi guarda e ride e dice “bello”. E io rido e penso che sì, è proprio “bello”.

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